Provo a legare insieme gli interventi da me fatti in occasione della presentazione del libro “La Scacchiera d’Oro” di Stefano Sala presso lo “Spazio Cultura Libreria Macaione” di Palermo il
pomeriggio del 18 gennaio 2017, aggiungendo alcune considerazioni omesse per ragioni di tempo.
L’ultimo libro di Stefano Sala, “La Scacchiera d’Oro” (Le Due Torri editore, Bologna, 2016) è
già stato presentato in diverse località della Toscana, tra cui Firenze, ma anche a Roma.
Dovunque ha ottenuto un ottimo indice di gradimento da parte del pubblico e ha sollecitato l’interesse di maestri
di scacchi e di appassionati di questo antico gioco, ma anche di studiosi di varie discipline.
Numerose sono le recensioni scritte su questo libro, che è stato analizzato sotto diversi aspetti: tecnico-scacchistico,
sociologico, psicologico, psicanalitico, storico, filosofico.
Ma nessuno fino ad ora lo ha esaminato dal punto di vista fotografico, per meglio dire, cromatico. E sotto questo aspetto, ho scoperto lo scarsissima presenza
dei colori. Sfido i prossimi lettori a trovare passi in cui l’autore faccia ricorso ai colori per descrivere oggetti, situazioni, stati d’animo.
Così mi è sorta una domanda che ho rivolto all’autore:
«Stefano, per caso sei daltonico?» Prontamente mi ha risposto: «No!»
Uno scherzo, ovviamente, che ha un suo fondamento di verità nel suo prodotto letterario. Il suo nuovo libro è indubbiamente
un “noir”, un genere che è per sua natura in bianco e nero, dove il bianco ha ragion d’essere quale rappresentazione della luce, indispensabile per mettere ben in evidenza le ombre, l’aspetto oscuro che cova nell’animo
umano, certe passioni, le ragioni nascoste di talune scelte, i comportamenti e le conseguenze che da essi derivano. In bianco e nero, come gli scacchi.
Ma “La Scacchiera d’Oro” non è un manuale di
scacchi. Il suo autore parla di scacchi e di ciò che si muove attorno a questo gioco, sì, ma come pretesto e occasione di incontro tra personaggi che sono accomunati dalla stessa passione, e li fa muovere come pezzi sulla scacchiera della vita.
La scacchiera e la vita, l’una metafora dell’altra e viceversa.
“La Scacchiera d’Oro” quindi non è esclusivo appannaggio degli scacchisti, ma non è
neanche un poliziesco o un giallo, che dir si voglia, né un thriller, né una detective-story, né una spy-story. Non racconta di un delitto, né delle indagini svolte da un investigatore, né delle mosse di un criminale per
sottrarsi al castigo.
“La Scacchiera d’Oro” rientra perfettamente nel genere “noir”, ma non è inquadrabile né nel sottogenere “metropolitano” né esattamente
in quello così detto “mediterraneo”, anche se di questo ha vaghi sentori.
La verità è che questo libro di Sala è a tutti gli effetti un romanzo, sì noir, ma con un respiro più
ampio. In esso si trovano spunti di riflessione che hanno una impercettibile, ma profonda connessione con l’attualità, con le tensioni in atto esistenti in ambito sociale, fino ad arrivare a un larvato accenno a uno scontro tra civiltà,
tra quella islamica e quella occidentale.
Così Sala riesce a coniugare il suo noir con il gioco degli scacchi e questi con la realtà.
Ma gli scacchi sono un gioco o uno sport?
La risposta che si sente dare è che sono un gioco se fatto per divertimento, diventa uno sport nelle competizioni dei tornei.
E una partita di scacchi si può definire un incontro o uno scontro? Come afferma
lo stesso Sala, «quello degli scacchi è un gioco estremamente violento perché ciascun giocatore si prefigge lo scopo di annientare l’avversario».
Ma è anche un confronto tra intelligenze,
l’esercizio delle proprie capacità intellettive nell’elaborazione di strategie che, mossa dopo mossa, inevitabilmente sono sotto gli occhi anche dell’avversario, che a sua volta, nel subirle, le ricambia con le sue. Una lotta senza
quartiere, ma incruenta, perché simulata. Negli scacchi, e nella vita?
Giocare a scacchi comporta la condivisione delle regole, innanzi tutto, e le diverse modalità di movimento dei singoli pezzi appaiono come
i condizionamenti che la vita infligge, come limiti che costringono ad operare in modo piuttosto che in un altro.
Questo gioco comporta pure un’altra condivisione: il rischio, il rischio di perdere. E negli scacchi
chi perde, perde tutto, inesorabilmente. Ciò che ottiene il vincitore, lo toglie al suo avversario; la vittoria dell’uno ha il prezzo dell’annientamento dell’altro.
Ernst Jünger (1895-1998)
scrittore e filosofo tedesco, grande osservatore della modernità, morto all’età di 103 anni dopo avere vissuto tutte le stagioni del XX secolo, ha scritto: «Ogni forma di vita è durissima lotta per la luce e per il nutrimento,
ogni albero e ogni pianta che cresce schiaccia altre vite. Anche noi esseri umani ci facciamo avanti nella vita solo al costo di sofferenze e privazioni altrui.»
Come negli scacchi, anche nella vita si gioca questa
durissima lotta, a conclusione della quale la soddisfazione di uno spesso è ottenuta a discapito di un altro.
E come nel gioco degli scacchi, due sono i protagonisti principali del romanzo di Sala: Salman, un ricco
emiro dell’Oman che individua negli scacchi l’opportunità di ripristinare l’originaria supremazia araba in questo gioco; Rodolfo, uno spiantato palermitano di scarsa moralità, un poco di buono, ma dotato di ottime capacità
logiche e matematiche che gli consentono di ottenere buoni risultati in questo gioco. Due personaggi che per differenti ragioni sono afflitti da profonde frustrazioni, ma che attraverso gli scacchi cercano occasione di rivalsa e di dar sfogo alle proprie ambizioni.
Due persone completamente diverse, appartenenti a due mondi lontani, a due culture ben distinte, ma per gli scacchi e con gli scacchi si incontrano e intrecciano un rapporto che li porterà lontano, attraverso vicende
che li condurrà a destini imprevisti.
C’è un terzo personaggio-chiave, che – a mio avviso – è quello che rappresenta l’incarnazione del “male”, ma non ne posso parlare
per ovvie ragioni. Chi leggerà, vedrà.
Il “teatro” del romanzo è di respiro internazionale. La storia inizia nel lontano Oman, il paese più orientale della penisola araba, la patria
di Salman, e termina nella ricca Danimarca, a Copenaghen, dove anche la statua della sirenetta e le fiabe di Andersen faranno la loro apparizione.
E in mezzo Palermo, ponte tra Oriente e Occidente, crocevia tra culture.
Quale, anzi, “quali” Palermo descrive Sala? Dal suo romanzo ne emergono almeno tre: la Palermo depressa e degradata, quella dello ZEN (da cui proviene Rodolfo); la Palermo-bene, formata da una borghesia pigra e indolente
che trascorre lunghe ore tra feste e giochi (in cui si inserisce Salman); e sullo sfondo la Palermo monumentale, con le testimonianze dei suoi antichi splendori, con uno specifico riferimento al Palazzo dei Normanni e alla Cappella Palatina, sul cui tetto
una formella ci tramanda la rappresentazione più antica che esiste di una partita a scacchi tra due arabi, accovacciati sotto una tenda. Una partita a scacchi o forse a “shatranj”, la prima versione originaria dell’India. Gli arabi
furono maestri di questo gioco e lo diffusero in Europa attraverso la Sicilia e la penisola iberica intorno all’anno Mille. Un gioco che si affermò in ogni ceto sociale e che travalicò persino le differenze religiose. Stampe dell’epoca
riportano scene di partite svolte tra giocatori musulmani, ebrei e cristiani. Mentre nei campi di battaglia “veri” si giocava il futuro del mondo.
Sala dichiara di non aver voluto neanche sfiorare gli aspetti
politici del contrasto tra l’Oriente e l’Occidente, né in relazione ai fatti del passato né a quelli del presente. Tuttavia, le vicende da lui descritte inevitabilmente si vanno ad inquadrare in una visione geopolitica complessa e
articolata. Anche nel suo romanzo quei “due mondi”, nel momento in cui entrano in contatto, appaiono molto distanti tra loro, preoccupati a conservare la propria identità e a dimostrare la propria supremazia. Ne fa cenno guardando al passato,
attraverso la narrazione di specifici fatti storici, ma non tace il fatto che questa contrapposizione esiste ed è viva ancora. E ciò lo rende evidente mediante la descrizione dei comportamenti e delle scelte fatte dai suoi personaggi, ciascuno
dei quali fa riferimento a valori e idealità profondamente differenti, perché figli di due diverse civiltà.
In questo quadro, al contempo storico e attuale, Sala descrive, non senza un velo di nostalgia,
la “sua” Palermo e ne rivela la sua ragion d’essere, quale luogo di incontro e di confronto tra civiltà.
Un luogo con una forte vocazione naturale all’accoglienza, intesa come accettazione
delle diversità, dove tutto è frutto di una continua interazione tra le sue componenti, un luogo dove tutte le genti del Mediterraneo, vedendo riconosciuta la propria identità, possono sentirsi “a casa”, senza turbare l’identità
della città stessa che di esse si nutre. Perché Palermo è un variopinto mosaico di umanità, un coro che con le sue molteplici voci crea una grande armonia.
Chiudo questo mio piccolo intervento
con un altro pensiero di Ernst Jünger: «La partita a scacchi non finisce con una vincita o con una perdita, finisce quando i pezzi bianchi e quelli neri vengono tolti dalla scacchiera e rimessi nella scatola. Rimane allora qualcosa di diverso dalla
vittoria o dalla sconfitta, rimane il ricordo di una trama che è stata tessuta, di una melodia che è stata suonata.»
E come di una partita a scacchi, anche di questo romanzo di Stefano Sala rimane il
ricordo della trama che è stata tessuta, della melodia che è stata suonata.
Palermo, 18 gennaio 2017
Sandro Riotta